Come annunciato nello scorso capitolo, iniziamo a vedere i “pezzi” che compongono il nostro progetto, liberamente ispirati alla “regola delle Five Ws” (Who, What, When, Where e Why). Questa regola racchiude i cinque elementi che, nel giornalismo anglosassone, sono considerati irrinunciabili nell’esposizione dei fatti presente all’inizio di ogni articolo. Nel nostro caso, però, hanno la funzione di aiutarci nella definizione di tutti gli elementi del nostro gioco: dalla selezione delle meccaniche alla creazione dell’ambientazione, dalla definizione delle procedure alla scelta dei materiali del prototipo, passando per i primi tentativi di previsione delle dinamiche che il gioco andrà ad innescare una volta “messo in moto”.
Sebbene non esista un ordine preciso per affrontare le “cinque W”, soprattutto mentre stiamo prendendo confidenza con il metodo, il mio consiglio è quello di partire da “why“, perché si gioca, che racchiude in sé la definizione di quello che sarà lo scopo del gioco, sia a livello meccanico (ossia proprio “come si vince”), sia probabilmente lo scopo dei personaggi interpretati dai giocatori; inoltre, dovrebbe anche essere ben chiaro, soprattutto a noi, il “perché stiamo creando proprio questo gioco”, ossia “perché vogliamo che la gente ci giochi”: che cosa vogliamo che sentano e provino quando giocano.

Il nostro gioco, infatti, deve avere uno scopo, anzi, in realtà ne avrà più di uno. Innanzitutto esiste uno scopo – solitamente quantificabile – che, probabilmente, sarà scritto all’inizio del regolamento. Questo andrà a decretare il vincitore (o i vincitori) di ogni partita e viene comunemente chiamato proprio “scopo del gioco”. Poi esiste uno “scopo narrativo”: per esempio, in Puerto Rico i giocatori accumulano punti (scopo del gioco) per far sì che la propria incarnazione tabletop ottenga “il maggior benessere e il più alto rispetto!” (obiettivo “narrativo” del personaggio); solitamente questi obiettivi coincidono, ma se da un lato è fondamentale sapere come si vince, può essere importante definire da subito quali sono le motivazioni dei personaggi in gioco, perché avere uno scopo chiaro e meno astratto di “accumulare punti vittoria” può aiutare molto i giocatori a calarsi nell’ambientazione. Esiste poi un ulteriore livello di “perché”, ossia lo scopo dell’esperienza che i giocatori andranno a vivere giocando, quella che abbiamo in mente noi, che potremmo chiamare “scopo del design”.
Nel libro di Bertolo e Mariani (Game Design, gioco e giocare fra teoria e progetto, di cui raccomando ogni volta la lettura) ho usato come esempio il Trono di Spade, il Gioco da Tavolo. Indubbiamente nel gioco vince il giocatore che per primo raggiunge un certo numero di punti; nel mondo di gioco però rappresentiamo il capo-famiglia di una casata del mondo di Westeros: quello che vorrà il nostro avatar, e che per fortuna coincide coi nostri piani, è conquistare e mantenere il controllo su una porzione dei Sette Regni così vasta da poter conquistare il trono. Molti dettagli presenti nel gioco funzionano perché fanno collimare i due “perché”: i territori strategicamente più appetibili forniscono più punti, pur essendo magari più vulnerabili; conquistare alcune zone consente di mantenere eserciti più numerosi e ottenere influenza ci permette di avere bonus e di fronteggiare la minaccia dei Bruti, tutte cose che alla fine ci aiuteranno a ottenere i famosi “punti”. Scendendo più in profondità, però, c’è un altro livello di lettura: si gioca a questo gioco anche per rivivere le battaglie e gli intrighi del mondo del fortunato ciclo di romanzi “Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco”, ma si gioca a questo gioco anche per dimostrare la propria superiorità strategica e diplomatica rispetto a quella dei nostri avversari, dato che si tratta di un gioco di guerre ed alleanze. Pur ricordando che ognuno può trarre piacere in modi diversi dallo stesso gioco, è chiaro che il gioco di Petersen e Wilson incentiva un certo tipo di dinamiche, come il bluff e la contrattazione, abbinandole a meccaniche che ricordano la gestione, il dispiegamento e il comando di un’armata sparsa su un ampio territorio, condendo tutto con un sistema di aste che simula la vita politica della capitale e la difesa della Barriera, al fine di far rivivere molti elementi della saga di Martin al pubblico. Quindi, non fermiamoci a “lo scopo del gioco è accumulare punti”: chiediamoci perché i nostri giocatori dovrebbero trovare interessante, coinvolgente ed appagante accumulare quei punti, ci aiuterà moltissimo a decidere, in seguito, cosa faranno e come.

Infatti, per quanto possa essere originale, ben congegnata o intrigante una meccanica di punteggio, questa avrà molto più senso se sarà intuitiva (per aderenza al tema o per immediatezza concettuale, pur rimanendo coerente con la complessità scelta per il nostro gioco) e soprattutto se sarà in grado di far compiere ai giocatori scelte significative. Come vedete, è difficile pensare per compartimenti stagni: il “perché si gioca” è strettamente legato a cosa vogliamo che facciano i giocatori: dallo scopo del gioco derivano le azioni, e azioni significative rendono significativo anche lo scopo del gioco.
Mi perdonerete se faccio un esempio un po’ autoreferenziale citando Vudù. In Vudù, molto semplicemente, vince il primo giocatore che arriva a undici punti. Ma, ovviamente, non è quello lo scopo del gioco: lo scopo del gioco è mettere i propri amici in posizione buffe e difficili da mantenere, cercando al tempo stesso di non “rompere” le maledizioni che ci vengono lanciate contro. Sia l’ambientazione (stregoni caricaturali che si lanciano magie), sia la scelta dei materiali (carte formato tarocco da tenere in mano e da pescare da mazzi diversi, dadi da lanciare, bamboline da passarsi), sia ovviamente le meccaniche in sé spingono tutte nella stessa direzione: mettere i giocatori in posizioni buffe, che li costringano a esilaranti acrobazie per non regalare punti agli avversari. Anche elementi apparentemente marginali, come il declamare a gran voce il nome delle magie o il passare l’apposita carta per “bersagliare” qualcuno con un incantesimo, sono tutte finalizzate a rendere l’esperienza di gioco coinvolgente e coerente con lo scopo “di design”, che è semplicemente quello di far divertire – inteso nel senso di “suscitare ilarità” – prendendo e prendendosi un po’ per il culo.
Se ci pensate, il punteggio altro non è (o almeno dovrebbe essere) un valore che premia chi ha fatto, al netto di elementi casuali o fonti d’incertezza varie, le scelte migliori, interagendo nel modo migliore con le meccaniche del gioco e coi propri avversari. Giova a questo punto fare un piccolo inciso sulle scelte, che come ormai viene ripetuto in quasi tutti i testi di game design dovrebbero essere significative; più che la quantità delle stesse, è la qualità di ogni scelta a far percepire un gioco come coinvolgente. Le scelte dovrebbero avere tre qualità fondamentali: devono essere utili, devono avere un esito incerto, e devono essere sensate.

Devono essere utili. Devono, cioè, produrre effetti concreti: non importa se sul breve o sul lungo termine, ma è necessario che una scelta, per essere significativa, sia consistente rispetto all’esperienza di gioco, perché a nessuno piace compiere azioni inutili. Le scelte inutili di solito emergono in fretta nei playtest: avremo cura di eliminarle senza pietà e senza il minimo rammarico.
Devono avere un esito incerto. Non devono quindi avere come risultato una situazione scontata, o portare chiaramente all’insorgere di una strategia dominante. Nel caso in cui ci accorgessimo che una scelta è scontata perché il suo risultato è ovvio, la soluzione migliore è quella di inserire una sorta di automatismo. Per esempio, se all’inizio del turno si ha sempre la possibilità di prendere una moneta, e ci si rende conto che conviene davvero sempre prendere una moneta, basterà trasformare la regola che offre la scelta di prendere o meno una moneta in un automatismo che regali una moneta a ogni giocatore all’inizio del turno; questo ovviamente è un esempio limite, ma ci sono anche casi meno ovvi.
Devono essere sensate. Dobbiamo dare ai giocatori le informazioni e gli strumenti per decidere cosa fare in modo che la scelta che fanno sia razionale e non “alla cieca”. In quest’ultimo caso, spesso è meglio far sì che la scelta non ricada sul giocatore, ma sia casuale: trasformare la scelta in un evento randomico, sollevando il giocatore dal prendere una decisione privo degli elementi necessari a compierla, significa spesso evitargli una situazione quasi sicuramente frustrante o noiosa.
Terminata questa breve parentesi, e avendo chiaro che le scelte rappresenteranno i momenti di gioco in cui i nostri giocatori diventeranno realmente attivi all’interno del gioco e in cui prenderanno quelle decisioni che li porteranno alla vittoria o alla sconfitta, possiamo passare a capire quali sono le modalità più utilizzate per quantificare la capacità di fare le scelte giuste (o quantomeno per “registrarne” il risultato).
Il modo più semplice di assegnare la vittoria è, ovviamente, farlo per addizione. Questo tipo di punteggio consiste sostanzialmente nell’accumulare qualcosa (soldi, punti, carte, set di oggetti) finché non si raggiunge un dato punteggio, oppure finché non termina la partita per limiti di tempo (per esempio dopo un certo numero di turni), dando la vittoria a chi ha ottenuto il punteggio maggiore. Il secondo sistema più utilizzato è quello della vittoria tramite controllo, che si ha quando il vincitore controlla determinati elementi (solitamente fissi, ma non è obbligatorio) presenti nello spazio di gioco (territori, porzioni di tabellone, aree di gioco). Il terzo sistema è quello della vittoria per eliminazione, in cui si vince togliendo tutti o alcuni dei pezzi degli avversari dallo spazio di gioco o eliminando alcuni elementi costitutivi dello stesso. Ovviamente questi sono sistemi estremamente semplici, che possono essere arricchiti, mischiati fra loro e fatti interagire con altre meccaniche: non è raro, per esempio, associare un sistema di addizione a un sotto-sistema di controllo o di eliminazione (si ottengono punti controllando o eliminando qualcosa) o utilizzando due sistemi paralleli (si vince controllando qualcosa e avendo contemporaneamente un certo quantitativo di una risorsa).
L’ideale, come dicevo, è che il sistema che decreta il vincitore sia il più possibile aderente al tema scelto: partendo dalla “base” che avete scelto, sarà sufficiente declinare le meccaniche in modo che ciò che avvicina alla vittoria i giocatori sia coerente col tema e dettato da scelte significative. Per esempio, tornando a un esempio semplice, in Vudù il vincitore è decretato per addizione, ma il punteggio deriva da tre fattori principali: l’aver lanciato delle magie (più sono costose, più punti danno, e dato che per lanciarle vanno “usati” dei dadi, si innesca una dinamica di push your luck), l’averle lanciate in modo che gli avversari le spezzino facendo guadagnare punti aggiuntivi (e qui entra in gioco l’estro dei giocatori nel realizzare combo impossibili da sostenere per gli avversari) e l’aver resistito alle maledizioni lanciate su di noi, in modo da ridurre al minimo i punti incassati dai nostri oppositori. Questo porta i giocatori da un lato a cercare di ottimizzare il lancio delle maledizioni, dall’altro a cercare di resistere alla tentazione di spezzarle per non regalare punti agli altri: il risultato è un gruppo di gente in posizioni assurde che tenta di lanciare dadi declamando a voce alta improbabili incantesimi, che poi è quello che Francesco e io volevamo che il gioco facesse.
Ci sono ovviamente esempi più complessi. Per esempio, Kemet (gioco di guerra e controllo del territorio ambientato in un mitologico Egitto) presenta un sistema di punteggio basato sull’accumulo di punti, ma questi punti possono essere ottenuti sia controllando alcune zone, sia sconfiggendo gli avversari in battaglia, sia potenziando le proprie piramidi, sia direttamente tramite alcuni “avanzamenti” (ottenere punti in questo modo, però, andrà a discapito del potenziamento del proprio esercito). Kemet è un gioco di battaglie estremamente coerente, in cui ogni singola meccanica grida al giocatore “recluta, sviluppa, combatti”. Ci sono molti approcci diversi alla vittoria – si possono potenziare le truppe, migliorarne la produzione, evolvere le piramidi e via dicendo – ma tutto appare estremamente intuitivo e privo di fronzoli inutili, lasciando al giocatore solo l’esperienza di veder crescere la propria armata fatta di guerrieri e creature mitologiche, cercando di partita in partita soluzioni diverse. Sempre rimanendo in ambito mitologico, in Mythic Battles: Pantheon, uno skirmish fra divinità dell’antica Grecia, si può vincere in due modi: in accordo con l’ambientazione creata per il gioco, si può ottenere l’agognata vittoria o per accumulo, assorbendo con la propria divinità un certo numero di segnalini, chiamati omphalos, o per eliminazione, uccidendo il dio avversario. Due metodi estremamente semplici che fanno da contraltare alla complessità e all’enorme numero di truppe disponibili. Avere due obiettivi molto semplici permette ai giocatori di scegliere le proprie armate con approcci diversi, più “intuitivi” o più basati su combinazioni complesse, secondo il principio dell’easy to learn, but hard to master: si può scegliere di puntare tutto sulla raccolta degli omphalos, oppure sulla distruzione del dio avversario, o ancora su un sapiente mix fra le due cose, da adattare alla strategia del nostro oppositore, ma in ogni caso sappiamo che ogni singola truppa ha qualche caratteristica in grado di aiutarci a raggiungere almeno uno dei due obiettivi.
Come sempre, domande, suggerimenti e commenti sono più che apprezzati.
A presto per il prossimo capitolo, dove analizzeremo il “where“, ossia il mondo di gioco.
One thought on “Guida pratica per aspiranti game designer (parte quinta: lo scopo del gioco)”